venerdì 13 dicembre 2013

IL SOLARIUM LETTERARIO




3
UNA TRANQUILLA DOMENICA DI SANGUE
(alla Colonia felina di Montelepre)




“Commenti?” chiedo alla platea.
“Ma è vero che salti nell’auto del Capo e vai alla Reggia?” domanda PERONI, un tigrato mezzo ritardato che ha avuto notevoli problemi di inserimento in Colonia.
“No, PERO! Questo è un romanzo. Fantasia scritta e stampata.”
“Eppure…” interviene ATTILA, la Cacciatrice della Colonia, “TAZZA, BELFI, COBALTO… qualcosa non mi torna. E’ come se…”
“Come se qualcuno ci abbia sfruttato per scrivere ‘sta porcheria!” di nuovo il lagnoso ZORRO.
“Direi di proseguire nella lettura,” interrompo. “Naturalmente se siete d’accordo.”
“Vai!” la Segretaria LIRA.

CAPITOLO 3

-Sono quasi le otto di mattino. Di un freddo mattino, anche se la notte aveva diluviato incessantemente la temperatura si è mantenuta bassa. Per fortuna ha smesso di piovere e posso fare i miei bisogni al solito posto, nel giardino, inizio a raccontare.
Non sono riuscito ancora ad abituarmi a fare le mie cose nelle cassettine con la lettiera, mi sembra innaturale per un gatto vissuto sempre all’aria aperta.
-Vedo Silvio andare verso la sua auto e dire a Susy: “Faccio solo un salto. Un controllo veloce, due scatolette per i mici e sono di ritorno. Intanto preparati.”
“Mica vorrai andare in Colonia con gli scarponcini che ti ho regalato?” di rimando Susy. «Sarà tutto fango, mettiti quelli che tieni nel garage!”
“Giusto”, sento mormorare al Capo.
“Cambiati pure i pantaloni, altrimenti si sporcheranno!” prosegue Susy.
“Sì!... e pure le mutande”, sento borbottare Silvio mentre scende nel garage, dove si toglie i pantaloni e si infila quelli logori di una vecchia mimetica infilando nelle tasche chiavi, fazzoletto, sigarette e accendino. Poi afferra gli scarponcini da lavoro e se li infila ai piedi facendo una smorfia.
“Sono troppo stretti, fanno un male boia. E’ ora di buttare anche questi, maledizione!” commenta.
Come sale in auto mi intrufolo pure io.
“Vieni su con me, Tazza?” domanda. “Puoi anche rimanere in Colonia a fare la guardia, tanto io e Susy dobbiamo uscire, dopo.”
Silvio tiene un tono gentile ma si vede da un miglio distante che è preoccupato, lo dimostra accendendosi l’ennesima sigaretta e riempiendo l’abitacolo di fumo. Peccato non esista una legga contro il fumo passivo per i felini.
“Bello, eh?” fa mostrandomi un accendino, di quelli economici, tutto nero con la sagoma di un gatto stilizzata di colore verde. Annuisco, soprattutto per farlo contento.
“L’ho visto ieri in una tabaccheria e non ho resistito. Una spesa folle! Tre euro, ma me ne sono presi tre. Questo col gatto verde, uno col gatto giallo e un altro col gatto arancione.” Poi torna cupo.
 La settimana prima c’era stata la seconda incursione dei due cagnacci. Stavolta le difese avevano retto, la casetta era rimasta indenne dall’assalto anche se il solito scassinatore aveva riprovato a divellere le assi vicino alle gattaiole.
Nessuna vittima, l’allarme era scattato per tempo e tutti erano riusciti a dileguarsi nel bosco. Però il problema rimaneva; l’infezione e il tir non avevano fatto il loro dovere.
“Speriamo bene”, lo sento mormorare mentre prendiamo la strada che porta al convento.
Poi, tra uno sbuffo di fumo e l’altro, assume quell’espressione che, ormai, conoscevo bene: quella della lamentazione.
“Bella settimana mi aspetta, Tazzone mio!” dice. “Domani scade l’assicurazione del macchinone, mercoledì c’è da pagare IVA e INPS, e pure il commercialista. Sabato scade la bolletta del gas. Son tre giorni che non ci dormo per cercare una soluzione.”
Lo guardo preoccupato.
Capo, alle otto della domenica mattina non puoi cominciare a fare questi discorsi!
“L’assicurazione”, prosegue, “la sterzo a fine settimana. Del gas pagherò la bolletta arretrata e il commercialista aspetterà. IVA e INPS no! Quelli li devi pagare alla scadenza! Lo Stato mica può aspettare, se non paghi ti saltano addosso e ti cavano pure le mutande, anche se sporche. Poi ci dicono che lo Stato siamo noi… ma andassero affanculo!”
Ogni giorno mi sorbivo il riepilogo dei conti da pagare della settimana. Uno strazio che terminava sempre con il fatidico: “… ma andassero affanculo!”
Era cotto, ormai c’era più poco da fare.
“Anche voi gatti una mano la potreste dare! Ogni tanto vi sogno, soprattutto quelli che non ci sono più: Fumo, Uncino, la Carmen, Millelire, il Barone… col cazzo che mi danno quattro numeri da giocare al lotto!”
Anche questa dei sogni era una cosa vecchia: detta e ridetta.
“Ma sento che mi porterete fortuna. Non so come, ma ne sono sicuro.”
Per consolarlo con la testa gli accarezzo la mano appoggiata sulla leva del cambio.
“Tazzone mio…”
Mentre rimango intossicato dal fumo che sale dalla sigaretta sentiamo una sirena alle spalle.
Un’auto della polizia ci supera sulla salita.
“Cazzo succede?” domanda Silvio.
Trecento metri più avanti altra sirena e un’autoambulanza che prende la strada del convento.
Ci scambiamo uno sguardo perplesso e preoccupato.
“Speriamo si siano sparati quelli della caccia al cinghiale!” esclama Silvio.
E’ noto il sentimento che il Capo prova verso i cacciatori. I veri amanti della natura, come li definisce lui.
Ogni volta che gli augurano un “In bocca al lupo!” risponde automaticamente: “Crepi il cacciatore!”
Narra la leggenda che, con questa risposta, si sia giocato due clienti amanti dello sport  venatorio.
“Frega una sega…” sembra abbia commentato.
Quando arriviamo a fianco del piazzale sterrato, davanti al sentiero che scende alla casetta della Colonia Nuova, è pieno di poliziotti e di auto con i lampeggianti accesi. Un attimo dopo arriva un’altra autoambulanza. Un agente gli fa segno di spostarsi e, mentre Silvio parcheggia davanti al sentiero, dice di proseguire e fermare l’auto più avanti, nel piazzale asfaltato fuori dal convento.
Parcheggiamo vicino alla Colonia Vecchia, a fianco delle scale che scendono al giardinetto, ora ridotto a una giungla di rovi e sterpaglie. Silvio chiude l’auto e infila le chiavi dentro una tasca. Un attimo e sentiamo un rumore metallico a terra. Silvio si china, raccoglie le chiavi cadute dalla tasca bucata e commenta: “Devo ricordarmi di farci mettere un punto da Susy; ogni tanto perdo qualcosa.”
Ci avviamo verso la Colonia Nuova, a qualche centinaio di metri di distanza. Passando davanti al parcheggio sterrato, dove c’è molta concitazione, Silvio chiede al poliziotto che lo aveva fatto spostare: “Cosa succede?”
“Nulla di interessante. Non può stare qui.”
“Nessun problema: era solo una curiosità. Scendo sotto alla Colonia dei gatti.”
“Colonia dei gatti?” domanda l’agente.
“Sì! Sotto c’è il rifugio dei gatti della Colonia: una casetta di legno.”
“Un attimo che vengo anche io”, replica, facendo segno ad un altro poliziotto di sostituirlo.
I gatti sono tutti svegli. Capirai, con quel casino! Nascosti sotto i pini cipressini del viale cercano di capire cosa stia succedendo.
Vedo Archimede, uno degli anziani della Colonia, sulla collinetta sopra al parcheggio sterrato che osserva le operazioni degli sbirri. A una ventina di metri da lui c’è il frate maledetto, anche lui curiosa, seduto sul tronco di un albero caduto.
Salgo sulla collinetta per controllare la situazione e, soprattutto, sorvegliare il frate.
Se lo avesse visto il Capo sarebbe successo un casino.
Invece Silvio si incammina verso la casetta seguito dal poliziotto a cui comincia a raccontare il perché la casetta e la Colonia si trovino in mezzo al bosco.
Raggiungo Archimede e gli chiedo: “Cosa è successo?”
“Si sono sparati”, la risposta.
“Quando?”
“Dopo le sei. Faceva ancora buio, stavo seguendo il frataccio maledetto. Oggi è il mio turno. Ho sentito diversi spari, pensavo fosse un cacciatore troppo vicino al convento. Ma il rumore era diverso da quello di un fucile da caccia.”
“Lui… l’hai visto dove sta?” faccio, indicando il l’inutile uomo col saio.
“Sì. Quando siamo arrivati qua già c’era un’auto della polizia. Si è fermato ed è sceso a vedere cosa fosse successo, ma l’hanno allontanato. Mi ha notato, ma non infastidito.”
Osservo con attenzione quello scherzo della natura. Lui ricambia lo sguardo per un istante, poi riporta gli occhi su quello che sta accadendo nel parcheggio.
Il suo sguardo è vuoto, non ha più quel guizzo crudele di una volta, quando ci scorgeva. Non ha più neppure l’espressione truce e cattiva che lo contraddistingueva. E’ smorto, abbattuto. Sembra arreso. Faccio un paragone con lo sguardo che ha Silvio in quel periodo: si somigliano. Scaccio subito quell’ orribile pensiero e torno a curiosare.
Nel piazzale sterrato i poliziotti stanno intorno a due auto parcheggiate con le portiere anteriori aperte. A terra ci sono tre umani e, sotto di loro, delle chiazze di sangue.
“Saranno morti?” domando.
“Sicuro”, risponde Archimede, “da quando sono qui non si sono mossi.”
Vediamo il frataccio controllare l’ora al suo orologio, alzarsi dal tronco e dirigersi verso il convento.
“E’ terminata l’ora d’aria. Torna nel convento”, commentiamo.
Qualche istante dopo avvistiamo Saetta, l’ultimo gatto che si può vantare di essere nato alla Colonia di Montelepre, che corre verso di noi.
“Ragazzi”, esordisce, col fiatone, “c’è un problema. La porta dei locali della Colonia Vecchia è aperta. Ho dato un’occhiata: dentro c’è un umano… morto.”
“E quattro”, la replica di Archimede (non per niente è un matematico).
“Bisogna avvisare il Capo”, consiglio.
In quel momento scorgiamo Silvio che è risalito dalla Colonia Nuova, sempre in compagnia del poliziotto. Stanno parlando tra loro.
Li raggiungo, insieme ad Archimede. Saetta torna a presidiare i locali della ex Colonia.
“Buono, Tazza”, mi fa, mentre mi struscio alle sue gambe, “ora andiamo.”
“Ma ci parla con questi gatti?” chiede l’agente.
“Certo! Capiscono meglio di tante persone.”
Si salutano e Silvio si avvia verso la sua auto. Lo seguo e, all’altezza delle scale di pietra che conducono al giardinetto e ai dormitori della vecchia Colonia, attiro la sua attenzione.
Cerco di portarlo giù, nei locali, che una volta erano degli ex bagni pubblici.
“Dai Tazza, devo andarmene.”
Archimede adotta la mia stessa tattica.
“Anche tu ti ci metti?” lo apostrofa il Capo.
Poi Saetta si mette a miagolare, per la prima volta nella sua vita. Rimaniamo tutti interdetti, Silvio per primo.
“Ma… cosa succede?” si domanda.
Andiamo tutti e tre verso i locali sotterranei, con Saetta che continua a miagolare, ed entro.
Incuriosito Silvio ci segue. Quando vede la porta degli ex bagni aperta impreca:
“Puttana miseria! Uno stronzo l’ha aperta di nuovo.”
Lo vedo risalire le scale e prendere dall’auto un mazzo di chiavi. Insieme alle altre ci sta pure quella della porta dei locali dell’ex colonia che non aveva riconsegnato al priore.
Entriamo tutti e tre, con Silvio che dice: “Fuori, ragazzi! Qui non si può più stare!”
Non usciamo ed è costretto a seguirci.
“Ma guarda tu che casino, qua dentro!” impreca mentre mette i piedi su una decina di centimetri di acqua. “Si è tappata di nuovo la chiavica dello scarico.”
Da quando il fabbro l’aveva riaperta, la porta metallica non chiudeva più bene.
Rimaneva un vuoto di un paio di centimetri tra la soglia e la base e, ogni volta che diluviava, entrava nei locali acqua, fango e foglie cadute. Tutte le volte bisognava stappare la chiavica per far defluire l’acqua e ripulire i pavimenti.
Erano mesi che Silvio non entrava più per controllare. Stavolta, oltre all’acqua e al fango, ci sono pure delle piccole ranocchie che zampettano qua e là.
“Mi sono bagnato gli scarponi, fregna!”
Mentre cerca di farci uscire entra nella stanza di destra: il cesso.
“O cazzo…” mormora vedendo il cadavere di un uomo seduto sulla tazza e appoggiato al lavandino. Ha una grossa chiazza di sangue sulla pancia e alcune gocce ancora scendono nell’acqua stagnante.
Silvio si avvicina al corpo, guardingo.
“E’ morto”, sussurra. “Devo chiamare i poliziotti.”
Appena sposta il piede sinistro impreca di nuovo: “Vacca troia!”
E’ finito sopra il lago di sangue che galleggia sull’acqua putrida e lo scarponcino si tinge di scarlatto.
“E’ destino: bisogna buttarli”, sentenzia.
Poi i suoi occhi scorgono una cosa – anzi due – appoggiate a terra, dietro a lui.
Una sacca con le ruote…
-Trolley, si chiama, corregge subito Miki, il gatto viaggiatore di Casa Carpaneta; viene da un’altra città.
-Grazie, faccio un po’ risentito.
-Un trolley con sopra una valigetta nera.
-Ventiquattrore, perfeziona ancora il pellegrino.
-Silvio le osserva attentamente. Il trolley ha una chiusura lampo nella parte superiore. Va bene, Miki?
I suoi occhi lacrimanti annuiscono. Non conoscevo Miki, non era uno dei gatti abbandonati alla Colonia di Montelepre poi portati qua a Casa Carpaneta. Mi hanno raccontato che venne raccolto, piccolissimo, in strada con la rinotracheite che lo stava uccidendo. Curato, è sopravvissuto ma ancora porta i segni della malattia: i suoi occhi sono chiusi per metà da una palpebra e lacrima in continuazione. Poi ha degli improvvisi attacchi di starnuti, come se avesse l’asma.
-Con le dita afferra il gancetto e apre una decina di centimetri la chiusura lampo, riprendo il racconto.
Lo vediamo bloccarsi e mormorare: “Cazzoooo.”
Apre tutta la chiusura e si volta verso di noi. E’ di un pallore cadaverico.
“Via gatti, via!” ci ordina mentre esce dai locali, si siede su uno scalino e si accende, con la mano tremante, un’altra sigaretta. Dopo un paio di tiri si alza di scatto, rientra dentro i locali,afferra il trolley e la valigetta e ci fa segno di allontanarci.
Usciamo dagli ex bagni e Silvio ci stupisce. Lo vediamo richiudere la porta, girare la chiave e far scattare la serratura.
“Cazzo fa?” chiede Saetta.
Archimede è perplesso, io interdetto: lo sa pure il Capo che chiudere a chiave non sarebbe servito a nulla. La porta si blocca, ma basterebbe una spinta decisa per riaprirla; la serratura non aveva mai funzionato.
“Silenzio”, ci fa Silvio appoggiando l’indice sulle labbra.
Furtivamente sale le scale, controlla la situazione e vede che non c’è nessuno. I pochi fedeli della messa delle 8,30 sono tutti vicino al piazzale sterrato a curiosare, come pure i poliziotti che sono impegnati ad allontanarli.
Apre, svelto, il portellone posteriore dell’auto, ci butta le due valigie e le copre con una vecchia coperta che tiene sempre dentro a una scatola.
Mi fa cenno di salire: “Veloce, Tazza!” e ripete il gesto con l’indice portato alle labbra a Saetta e Archimede.
Mette in moto e torniamo a casa.
SAETTA alla Colonia Vecchia - febbraio 2007 -

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