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UNA TRANQUILLA DOMENICA DI SANGUE
(alla Colonia felina di Montelepre)
“Commenti?” chiedo alla platea.
“Ma è vero che salti nell’auto del Capo e vai alla Reggia?”
domanda PERONI, un tigrato mezzo ritardato che ha avuto notevoli problemi di
inserimento in Colonia.
“No, PERO! Questo è un romanzo. Fantasia scritta e
stampata.”
“Eppure…” interviene ATTILA, la Cacciatrice della Colonia,
“TAZZA, BELFI, COBALTO… qualcosa non mi torna. E’ come se…”
“Come se qualcuno ci abbia sfruttato per scrivere ‘sta
porcheria!” di nuovo il lagnoso ZORRO.
“Direi di proseguire nella lettura,” interrompo.
“Naturalmente se siete d’accordo.”
“Vai!” la Segretaria LIRA.
CAPITOLO 3
-Sono quasi le otto di mattino. Di un freddo
mattino, anche se la notte aveva diluviato incessantemente la temperatura si è
mantenuta bassa. Per fortuna ha smesso di piovere e posso fare i miei bisogni
al solito posto, nel giardino, inizio a raccontare.
Non sono riuscito ancora ad abituarmi a fare le
mie cose nelle cassettine con la lettiera, mi sembra innaturale per un gatto
vissuto sempre all’aria aperta.
-Vedo Silvio andare verso la sua auto e dire a
Susy: “Faccio solo un salto. Un controllo veloce, due scatolette per i mici e
sono di ritorno. Intanto preparati.”
“Mica vorrai andare in Colonia con gli scarponcini
che ti ho regalato?” di rimando Susy. «Sarà tutto fango, mettiti quelli che
tieni nel garage!”
“Giusto”, sento mormorare al Capo.
“Cambiati pure i pantaloni, altrimenti si
sporcheranno!” prosegue Susy.
“Sì!... e pure le mutande”, sento borbottare
Silvio mentre scende nel garage, dove si toglie i pantaloni e si infila quelli
logori di una vecchia mimetica infilando nelle tasche chiavi, fazzoletto,
sigarette e accendino. Poi afferra gli scarponcini da lavoro e se li infila ai
piedi facendo una smorfia.
“Sono troppo stretti, fanno un male boia. E’ ora
di buttare anche questi, maledizione!” commenta.
Come sale in auto mi intrufolo pure io.
“Vieni su con me, Tazza?” domanda. “Puoi anche
rimanere in Colonia a fare la guardia, tanto io e Susy dobbiamo uscire, dopo.”
Silvio tiene un tono gentile ma si vede da un
miglio distante che è preoccupato, lo dimostra accendendosi l’ennesima
sigaretta e riempiendo l’abitacolo di fumo. Peccato non esista una legga contro
il fumo passivo per i felini.
“Bello, eh?” fa mostrandomi un accendino, di
quelli economici, tutto nero con la sagoma di un gatto stilizzata di colore
verde. Annuisco, soprattutto per farlo contento.
“L’ho visto ieri in una tabaccheria e non ho
resistito. Una spesa folle! Tre euro, ma me ne sono presi tre. Questo col gatto
verde, uno col gatto giallo e un altro col gatto arancione.” Poi torna cupo.
La
settimana prima c’era stata la seconda incursione dei due cagnacci. Stavolta le
difese avevano retto, la casetta era rimasta indenne dall’assalto anche se il
solito scassinatore aveva riprovato a divellere le assi vicino alle gattaiole.
Nessuna vittima, l’allarme era scattato per tempo
e tutti erano riusciti a dileguarsi nel bosco. Però il problema rimaneva;
l’infezione e il tir non avevano fatto il loro dovere.
“Speriamo bene”, lo sento mormorare mentre
prendiamo la strada che porta al convento.
Poi, tra uno sbuffo di fumo e l’altro, assume
quell’espressione che, ormai, conoscevo bene: quella della lamentazione.
“Bella settimana mi aspetta, Tazzone mio!” dice.
“Domani scade l’assicurazione del macchinone, mercoledì c’è da pagare IVA e
INPS, e pure il commercialista. Sabato scade la bolletta del gas. Son tre
giorni che non ci dormo per cercare una soluzione.”
Lo guardo preoccupato.
Capo, alle otto della domenica mattina non puoi
cominciare a fare questi discorsi!
“L’assicurazione”, prosegue, “la sterzo a fine
settimana. Del gas pagherò la bolletta arretrata e il commercialista aspetterà.
IVA e INPS no! Quelli li devi pagare alla scadenza! Lo Stato mica può
aspettare, se non paghi ti saltano addosso e ti cavano pure le mutande, anche
se sporche. Poi ci dicono che lo Stato siamo noi… ma andassero affanculo!”
Ogni giorno mi sorbivo il riepilogo dei conti da
pagare della settimana. Uno strazio che terminava sempre con il fatidico: “… ma
andassero affanculo!”
Era cotto, ormai c’era più poco da fare.
“Anche voi gatti una mano la potreste dare! Ogni
tanto vi sogno, soprattutto quelli che non ci sono più: Fumo, Uncino, la
Carmen, Millelire, il Barone… col cazzo che mi danno quattro numeri da giocare
al lotto!”
Anche questa dei sogni era una cosa vecchia: detta
e ridetta.
“Ma sento che mi porterete fortuna. Non so come,
ma ne sono sicuro.”
Per consolarlo con la testa gli accarezzo la mano
appoggiata sulla leva del cambio.
“Tazzone mio…”
Mentre rimango intossicato dal fumo che sale dalla
sigaretta sentiamo una sirena alle spalle.
Un’auto della polizia ci supera sulla salita.
“Cazzo succede?” domanda Silvio.
Trecento metri più avanti altra sirena e
un’autoambulanza che prende la strada del convento.
Ci scambiamo uno sguardo perplesso e preoccupato.
“Speriamo si siano sparati quelli della caccia al
cinghiale!” esclama Silvio.
E’ noto il sentimento che il Capo prova verso i
cacciatori. I veri amanti della natura, come li definisce lui.
Ogni volta che gli augurano un “In bocca al lupo!”
risponde automaticamente: “Crepi il cacciatore!”
Narra la leggenda che, con questa risposta, si sia
giocato due clienti amanti dello sport venatorio.
“Frega una sega…” sembra abbia commentato.
Quando arriviamo a fianco del piazzale sterrato,
davanti al sentiero che scende alla casetta della Colonia Nuova, è pieno di
poliziotti e di auto con i lampeggianti accesi. Un attimo dopo arriva un’altra
autoambulanza. Un agente gli fa segno di spostarsi e, mentre Silvio parcheggia
davanti al sentiero, dice di proseguire e fermare l’auto più avanti, nel
piazzale asfaltato fuori dal convento.
Parcheggiamo vicino alla Colonia Vecchia, a fianco
delle scale che scendono al giardinetto, ora ridotto a una giungla di rovi e
sterpaglie. Silvio chiude l’auto e infila le chiavi dentro una tasca. Un attimo
e sentiamo un rumore metallico a terra. Silvio si china, raccoglie le chiavi
cadute dalla tasca bucata e commenta: “Devo ricordarmi di farci mettere un
punto da Susy; ogni tanto perdo qualcosa.”
Ci avviamo verso la Colonia Nuova, a qualche
centinaio di metri di distanza. Passando davanti al parcheggio sterrato, dove
c’è molta concitazione, Silvio chiede al poliziotto che lo aveva fatto
spostare: “Cosa succede?”
“Nulla di interessante. Non può stare qui.”
“Nessun problema: era solo una curiosità. Scendo
sotto alla Colonia dei gatti.”
“Colonia dei gatti?” domanda l’agente.
“Sì! Sotto c’è il rifugio dei gatti della Colonia:
una casetta di legno.”
“Un attimo che vengo anche io”, replica, facendo
segno ad un altro poliziotto di sostituirlo.
I gatti sono tutti svegli. Capirai, con quel
casino! Nascosti sotto i pini cipressini del viale cercano di capire cosa stia
succedendo.
Vedo Archimede, uno degli anziani della Colonia,
sulla collinetta sopra al parcheggio sterrato che osserva le operazioni degli
sbirri. A una ventina di metri da lui c’è il frate maledetto, anche lui
curiosa, seduto sul tronco di un albero caduto.
Salgo sulla collinetta per controllare la
situazione e, soprattutto, sorvegliare il frate.
Se lo avesse visto il Capo sarebbe successo un
casino.
Invece Silvio si incammina verso la casetta
seguito dal poliziotto a cui comincia a raccontare il perché la casetta e la
Colonia si trovino in mezzo al bosco.
Raggiungo Archimede e gli chiedo: “Cosa è
successo?”
“Si sono sparati”, la risposta.
“Quando?”
“Dopo le sei. Faceva ancora buio, stavo seguendo
il frataccio maledetto. Oggi è il mio turno. Ho sentito diversi spari, pensavo
fosse un cacciatore troppo vicino al convento. Ma il rumore era diverso da
quello di un fucile da caccia.”
“Lui… l’hai visto dove sta?” faccio, indicando il
l’inutile uomo col saio.
“Sì. Quando siamo arrivati qua già c’era un’auto
della polizia. Si è fermato ed è sceso a vedere cosa fosse successo, ma l’hanno
allontanato. Mi ha notato, ma non infastidito.”
Osservo con attenzione quello scherzo della
natura. Lui ricambia lo sguardo per un istante, poi riporta gli occhi su quello
che sta accadendo nel parcheggio.
Il suo sguardo è vuoto, non ha più quel guizzo
crudele di una volta, quando ci scorgeva. Non ha più neppure l’espressione
truce e cattiva che lo contraddistingueva. E’ smorto, abbattuto. Sembra arreso.
Faccio un paragone con lo sguardo che ha Silvio in quel periodo: si somigliano.
Scaccio subito quell’ orribile pensiero e torno a curiosare.
Nel piazzale sterrato i poliziotti stanno intorno
a due auto parcheggiate con le portiere anteriori aperte. A terra ci sono tre
umani e, sotto di loro, delle chiazze di sangue.
“Saranno morti?” domando.
“Sicuro”, risponde Archimede, “da quando sono qui
non si sono mossi.”
Vediamo il frataccio controllare l’ora al suo
orologio, alzarsi dal tronco e dirigersi verso il convento.
“E’ terminata l’ora d’aria. Torna nel convento”,
commentiamo.
Qualche istante dopo avvistiamo Saetta, l’ultimo
gatto che si può vantare di essere nato alla Colonia di Montelepre, che corre
verso di noi.
“Ragazzi”, esordisce, col fiatone, “c’è un problema.
La porta dei locali della Colonia Vecchia è aperta. Ho dato un’occhiata: dentro
c’è un umano… morto.”
“E quattro”, la replica di Archimede (non per
niente è un matematico).
“Bisogna avvisare il Capo”, consiglio.
In quel momento scorgiamo Silvio che è risalito
dalla Colonia Nuova, sempre in compagnia del poliziotto. Stanno parlando tra
loro.
Li raggiungo, insieme ad Archimede. Saetta torna a
presidiare i locali della ex Colonia.
“Buono, Tazza”, mi fa, mentre mi struscio alle sue
gambe, “ora andiamo.”
“Ma ci parla con questi gatti?” chiede l’agente.
“Certo! Capiscono meglio di tante persone.”
Si salutano e Silvio si avvia verso la sua auto.
Lo seguo e, all’altezza delle scale di pietra che conducono al giardinetto e ai
dormitori della vecchia Colonia, attiro la sua attenzione.
Cerco di portarlo giù, nei locali, che una volta
erano degli ex bagni pubblici.
“Dai Tazza, devo andarmene.”
Archimede adotta la mia stessa tattica.
“Anche tu ti ci metti?” lo apostrofa il Capo.
Poi Saetta si mette a miagolare, per la prima
volta nella sua vita. Rimaniamo tutti interdetti, Silvio per primo.
“Ma… cosa succede?” si domanda.
Andiamo tutti e tre verso i locali sotterranei,
con Saetta che continua a miagolare, ed entro.
Incuriosito Silvio ci segue. Quando vede la porta
degli ex bagni aperta impreca:
“Puttana miseria! Uno stronzo l’ha aperta di
nuovo.”
Lo vedo risalire le scale e prendere dall’auto un
mazzo di chiavi. Insieme alle altre ci sta pure quella della porta dei locali
dell’ex colonia che non aveva riconsegnato al priore.
Entriamo tutti e tre, con Silvio che dice: “Fuori,
ragazzi! Qui non si può più stare!”
Non usciamo ed è costretto a seguirci.
“Ma guarda tu che casino, qua dentro!” impreca
mentre mette i piedi su una decina di centimetri di acqua. “Si è tappata di
nuovo la chiavica dello scarico.”
Da quando il fabbro l’aveva riaperta, la porta
metallica non chiudeva più bene.
Rimaneva un vuoto di un paio di centimetri tra la
soglia e la base e, ogni volta che diluviava, entrava nei locali acqua, fango e
foglie cadute. Tutte le volte bisognava stappare la chiavica per far defluire
l’acqua e ripulire i pavimenti.
Erano mesi che Silvio non entrava più per
controllare. Stavolta, oltre all’acqua e al fango, ci sono pure delle piccole
ranocchie che zampettano qua e là.
“Mi sono bagnato gli scarponi, fregna!”
Mentre cerca di farci uscire entra nella stanza di
destra: il cesso.
“O cazzo…” mormora vedendo il cadavere di un uomo
seduto sulla tazza e appoggiato al lavandino. Ha una grossa chiazza di sangue
sulla pancia e alcune gocce ancora scendono nell’acqua stagnante.
Silvio si avvicina al corpo, guardingo.
“E’ morto”, sussurra. “Devo chiamare i
poliziotti.”
Appena sposta il piede sinistro impreca di nuovo:
“Vacca troia!”
E’ finito sopra il lago di sangue che galleggia
sull’acqua putrida e lo scarponcino si tinge di scarlatto.
“E’ destino: bisogna buttarli”, sentenzia.
Poi i suoi occhi scorgono una cosa – anzi due –
appoggiate a terra, dietro a lui.
Una sacca con le ruote…
-Trolley, si chiama, corregge subito Miki, il
gatto viaggiatore di Casa Carpaneta; viene da un’altra città.
-Grazie, faccio un po’ risentito.
-Un trolley con sopra una valigetta nera.
-Ventiquattrore, perfeziona ancora il pellegrino.
-Silvio le osserva attentamente. Il trolley ha una
chiusura lampo nella parte superiore. Va bene, Miki?
I suoi occhi lacrimanti annuiscono. Non conoscevo
Miki, non era uno dei gatti abbandonati alla Colonia di Montelepre poi portati
qua a Casa Carpaneta. Mi hanno raccontato che venne raccolto, piccolissimo, in
strada con la rinotracheite che lo stava uccidendo. Curato, è sopravvissuto ma
ancora porta i segni della malattia: i suoi occhi sono chiusi per metà da una
palpebra e lacrima in continuazione. Poi ha degli improvvisi attacchi di
starnuti, come se avesse l’asma.
-Con le dita afferra il gancetto e apre una decina
di centimetri la chiusura lampo, riprendo il racconto.
Lo vediamo bloccarsi e mormorare: “Cazzoooo.”
Apre tutta la chiusura e si volta verso di noi. E’
di un pallore cadaverico.
“Via gatti, via!” ci ordina mentre esce dai
locali, si siede su uno scalino e si accende, con la mano tremante, un’altra
sigaretta. Dopo un paio di tiri si alza di scatto, rientra dentro i
locali,afferra il trolley e la valigetta e ci fa segno di allontanarci.
Usciamo dagli ex bagni e Silvio ci stupisce. Lo
vediamo richiudere la porta, girare la chiave e far scattare la serratura.
“Cazzo fa?” chiede Saetta.
Archimede è perplesso, io interdetto: lo sa pure
il Capo che chiudere a chiave non sarebbe servito a nulla. La porta si blocca,
ma basterebbe una spinta decisa per riaprirla; la serratura non aveva mai
funzionato.
“Silenzio”, ci fa Silvio appoggiando l’indice
sulle labbra.
Furtivamente sale le scale, controlla la
situazione e vede che non c’è nessuno. I pochi fedeli della messa delle 8,30 sono
tutti vicino al piazzale sterrato a curiosare, come pure i poliziotti che sono
impegnati ad allontanarli.
Apre, svelto, il portellone posteriore dell’auto,
ci butta le due valigie e le copre con una vecchia coperta che tiene sempre
dentro a una scatola.
Mi fa cenno di salire: “Veloce, Tazza!” e ripete
il gesto con l’indice portato alle labbra a Saetta e Archimede.
Mette in moto e torniamo a casa.
…
SAETTA alla Colonia Vecchia - febbraio 2007 - |
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