venerdì 6 dicembre 2013

IL SOLARIUM LETTERARIO




    2- UNA TRANQUILLA DOMENICA DI SANGUE (alla Colonia felina di Montelepre)





Ci mettiamo comodi. Siamo una decina sdraiati sul solarium e altrettanti stesi a terra e sulle panchine artigianali della Colonia.
Schiarisco la voce ed inizio la lettura, con curiosità ma poca convinzione.
CAPITOLO UNO
-Ebbene sì! Quella domenica, su alla Colonia di Montelepre, c’ero anche io.

CAPITOLO DUE
“Come sarebbe: capitolo due?” interrompe il solito lamentoso ZORRO.
“Significa che il primo capitolo è finito, ora inizia il secondo”, rispondo seccato.
“Nu capolavoro!” commenta CORNIOLA, il Fannullone della Colonia, di chiare origini napoletane. “Accussì l’avrebbi scritto pure io nu romanzo!”
Fannullone ed ignorante, ma è così: prendere o lasciare.

CAPITOLO DUE! ripeto ad alta voce per zittire la platea.
-Ben inteso: non ho assistito al crimine. Sono arrivato a giochi fatti. Vi racconterò quello che è successo dopo, visto con i miei occhi e saputo dalle confidenze degli altri gatti. Me lo ricordo come se fosse successo ieri.
La platea dei nuovi arrivi felini di Casa Carpaneta pende dalle mie labbra. Insieme a loro alcune vecchie conoscenze, trasferite dalla Colonia felina Protetta di Montelepre per le loro precarie condizioni di salute.
In una giornata di pioggia come questa non c’è niente di meglio che starsene spaparanzati sui vecchi divani e poltrone che arredano il grande garage di casa, l’appartamento privato dei gatti della colonia domestica, a fare quattro chiacchiere e raccontarci storie, in mancanza di computer collegato ad Internet o giochi di società e carte da ramino.
La Colonia felina Protetta di Montelepre (Colonia Nuova per tutti i gatti) è sempre lì: la casetta di legno nel bosco fuori dal convento di Montelepre e la vita dei randagi che la popolano, dopo un breve periodo di tranquillità, era tornata turbolenta, piena di pericoli.
Per questo avevo dovuto cedere, a malincuore, l’incarico di Capocolonia.
Non avevo commesso errori o mancanze, né abdicato per condizioni di salute non idonee e nessun colpo di stato mi aveva spodestato. Insieme agli altri anziani della Colonia avevamo deciso che dovevo assumermi un’altra responsabilità, ben più gravosa: stare vicino a Silvio, l’umano realizzatore della Colonia Nuova, che tutt’ora ci segue e assiste da tanti anni.
Il Capo, come tutti affettuosamente lo chiamano, stava passando un brutto periodo. Troppi problemi, tutti insieme. Non era più quello di una volta. Pochi sorrisi, niente battute con gli altri umani che ci venivano a trovare, coccole estinte: stava diventando un’altra persona.
Il tempo passato con i gatti della Colonia Nuova, che lui stesso definiva l’ora più bella della giornata, era diventato una routine senza emozioni. Riempiva i vassoi con le crocchette, distribuiva la pasta e l’umido, cambiava l’acqua nelle ciotole senza uno sguardo o una parola per noi, in maniera meccanica, come fosse un robot.
Si dimenticava di pulirci la cassettina igienica dentro alla casetta, avevamo le copertine delle nostre cucce sporche e in quelle esterne diverse erano bagnate e non ci si poteva dormire.
Non ci controllava più il culo per vedere se avessimo la tenia ed erano spariti pure i bocconcini premio che spesso ci portava.
“Ma che cazzo gli avremo fatto?” domandava Primula, la scorbutica tricolore, mentre gli altri anziani erano preoccupati di quell’andazzo e temevano l’abbandono da parte del nostro umano.
Solo Susy, sua moglie, complice fattiva nella cura della Colonia era ancora premurosa con noi.
Certo, altri problemi alla Colonia Nuova ne avevamo avuti, ma meno gravi della crociata antifelini combattuta anni fa da un piccolo e stronzo frate che ci aveva costretto a traslocare dai comodi, ma umidi, locali degli ex bagni pubblici fuori dal convento di Montelepre per rifugiarci nello spiazzo del bosco dove Silvio aveva installato la casetta e creato dal nulla la Colonia Nuova. Fu una guerra crudele che costò la vita a diversi randagi mentre molti altri scomparvero nel nulla. Terminò solo quando Silvio mise con le spalle al muro le gerarchie ecclesiastiche minacciando di presentare prove e testimoni e portare in tribunale quel bastardo del loro sottoposto. Il frate fu trasferito con la massima urgenza (e discrezione) ad un altro convento. La ferita causata dal comportamento dei frati del convento, comunque, non si era mai rimarginata.
Ora avevamo un altro pericoloso problema, anzi due: due cani inselvatichiti.
Un’incursione delle due bestiacce dopo la seconda nevicata di febbraio. Una mattina, complice lo spesso manto nevoso che aveva attutito il rumore della loro corsa, l’allarme scattava tardivo. Chi aveva potuto si era rifugiato sugli alberi vicini, altri erano fuggiti col solito schema: uno a nord, uno a nord-est, un altro a est, etc, evitando la direzione di arrivo del pericolo. E’ un ottimo sistema per salvarsi: tutti i fuggiaschi non si possono inseguire, al limite solo uno si sacrifica.
Chi ne aveva fatto le spese erano stati il mite Cobalto e la belvetta Belfi. Si erano rifugiati dentro alla casetta di legno, convinti di essere al sicuro. Ma i due cani erano grandi, enormi e, soprattutto, due. Mentre uno bloccava una delle due uscite, la gattaiola di destra, il secondo, quello più forte e feroce, a morsi scardinava la gattaiola di sinistra e poi le assi della casetta. Finché riuscì ad entrare. Cobalto e Belfi combatterono, si difesero, ma a nulla valse.
Sono morti da eroi.
Quando, al pomeriggio, arrivò Silvio capì subito che qualcosa non andava: non eravamo al solito posto ad aspettarlo. Solo Archimede e Uebi facevano timidamente capolino dai rami di un castagno. Avevano il terrore stampato negli occhi. Silvio impallidì vedendo la casetta della Colonia Nuova sventrata, stuprata.
Quando aprì la porta gli si presentò una scena apocalittica: tante cucce di polistirolo distrutte, coperte strappate, ciotole rovesciate e i due corpi dei nostri colleghi oramai irrigiditi dal freddo e dal rigor mortis.
Lo sentimmo gridare e bestemmiare.
Ricompose i cadaveri in due scatole e sistemò alla meno peggio l’interno della casetta. Poi ci chiamò.
Ci presentammo in pochi, solo una decina. Gli altri erano ancora nascosti nel bosco. Distribuì il cibo con le lacrime che scendevano dagli occhi e si ghiacciavano ancora prima di cadere a terra. Respirava forte e profondo. Conosco quel suo respiro: è il sintomo di una rabbia che aspetta solo l’occasione giusta per esplodere. Se, disgraziatamente, fosse arrivato un cane lasciato libero di scorrazzare dal padrone l’avrebbe fatto a pezzi. Probabilmente anche il padrone.
Confortati dalla sua presenza controllammo l’interno del nostro rifugio.
Le due belve feroci non avevano toccato le crocchette, neppure quelle delle ciotole esterne. Erano venuti per uccidere, non per mangiare. Anche il Capo era dello stesso avviso e notò pure che le tracce di sangue rimaste sulle assi divelte e sul pavimento della casetta non erano dei nostri ex colleghi.
“Speriamo gli si infetti la ferita e muoia, lentamente, di setticemia”, lo sentimmo dire. “E l’altro finisca sotto le ruote di un tir che trasporta rulli compressori.”
Poi fece delle foto col telefonino ai danni materiali, ai due cadaveri e alle impronte che i cani avevano lasciato sulla neve.
Non poté riparare lo squarcio della casetta, non aveva gli attrezzi e, oramai, faceva buio. Quella notte dormimmo tutti in rifugi di fortuna, lontano dalla Colonia Nuova.
La paura che tornassero i cani era tanta.
Venni poi a sapere che il giorno successivo Silvio andò all’ ASL a denunciare il fatto ricevendo la notizia che i due cani avevano già colpito alcuni giorni prima. Dalla parte opposta della collina avevano fatto strage di pecore. Erano ufficialmente ricercati, anche se nessuno gli stava dando la caccia per evitare che facessero altri danni.
Il pomeriggio, mentre Silvio riparava la casetta e blindava le due aperture con ferri e spesse assi di legno ci raccontò che aveva fatto un esposto ai Carabinieri paventando un possibile attacco dei due mostri ad umani.
Allora sì che si mossero!
Non passava giorno che una pattuglia della Forestale, dei Carabinieri, Polizia Veterinaria, Polizia Municipale e Provinciale non salisse su al piazzale del convento a controllare la situazione.
Anche Silvio aveva preso le sue contromisure: maggiore sorveglianza e adeguati dissuasori anti-cane (dei quali taccio per evitargli eventuali denunce).
Solo in quei giorni di emergenza rividi lo spirito del Capo che conoscevo.
Ma, passata una settimana, Silvio si appiattì di nuovo.
Capimmo che i problemi del Capo erano altri ancora e fui investito del compito di stargli vicino ed indagare.
Come?
Nella maniera più semplice possibile: cominciai a comportarmi come uno di quegli stupidi cani che seguono il padrone ad ogni passo.
Avevo visto come si comportava il povero Charlie, Il Cane di Casa Carpaneta.
Non che Charlie fosse uno stupido, tutt’altro. Avevo deciso di emularlo, forse con una presenza costante al suo fianco Silvio sarebbe risorto.
Come saliva in auto balzavo dentro pure io. Mi portò a Casa Carpaneta, la sua residenza dove ospita tanti altri gatti, tra cui vecchi colleghi di Colonia con problemi, ma lì non mi comportai come loro. Niente divano o cuccia vicino al radiatore del termosifone: sempre e immancabilmente accanto a lui.
Anche quando veniva in Colonia. Saltavo nell’auto, tornavo dai miei amici e gli raccontavo tutto.
Oltre ai problemi di Susy, che a causa della legge sulla privacy non posso menzionare, Silvio stava attraversando il classico periodo di merda globale.
La crisi gli aveva azzoppato il lavoro e le conseguenti entrate economiche.
Contemporaneamente tutte le stelle e i pianeti del cielo gli erano andati in opposizione.
In pochi mesi era scoppiata la caldaia del riscaldamento di casa, si era rotta prima la sua auto, poi quella di Susy, l’Agenzia delle Entrate aveva scoperto delle detrazioni improprie e aveva battuto cassa con tanto di sanzioni e interessi: un salasso che l’aveva dissanguato e messo in mezzo ai debiti.
Non solo!
Anche il Comune gli aveva mandato un’ingiunzione: si doveva allacciare alla nuova rete fognaria entro un mese, a proprie spese naturalmente!
Il collettore stava qualche centinaio di metri a valle della fossa biologica in uso a Casa Carpaneta. Scavare e posare tubazioni nella roccia del bosco di Casa Carpaneta non era uno scherzo.
“Dodicimila Euro per spostare la merda di trecento metri? Ma siamo pazzi?” il suo commento alla vista del preventivo per l’allaccio.
“Cosa facciamo?” la domanda preoccupata di Susy.
“Un cazzo”, la telegrafica risposta.
“Venissero loro col piccone a fare l’allaccio. Per trent’anni abbiamo pisciato e cagato nella fossa biologica e, ora, scoprono che bisogna farla nelle fogne! Andassero affanculo loro e i tutti gli idioti del Comune!” la spiegazione scientifica.
La questione fogne era stata accantonata anche se Silvio, stava seriamente pensando di fregarli allacciando solo due metri di tubo, cieco, al collettore.
“Venissero a contare gli stronzi, voglio vedere se si accorgono che ne mancano un paio al giorno!” Ora la spiegazione era puramente aritmetica.
Ma non era tutto.
Anche noi gatti gli avevamo creato un imprevisto, costoso.
Avevano abbandonato alla Colonia Nuova una micetta di sei o sette mesi, subito battezzata Viola. Bellissima: tricolore scura a pelo lungo. Ancora molto timida con gli umani, si divertiva un mondo a giocare con gli altri due cuccioli della Colonia, Gufino e Wafer.
Un pomeriggio, mentre si rincorrevano, attraversò la strada senza prestare attenzione.
Un’auto la pizzicò all’altezza del bacino. Fuggì dolorante nel bosco e non si fece vedere per tre giorni. Oramai la davamo per spacciata. Invece, il quarto si ripresentò alla Colonia e, in silenzio, si adagiò dentro una delle cucce esterne.
Fu un caso che il Capo la vide e, appena riuscì ad accarezzarla, capì che aveva dei problemi. Certi gatti si fanno toccare dagli umani solo quando sono in fin di vita. La portò subito dai veterinari che diagnosticarono la rottura del coccige, la lacerazione del retto e dell’uretra con conseguente infiltrazione sottocute di urina e feci. Fu operata, due volte e la pelle necrotizzata asportata. Dopo quindici giorni di ricovero, quando i problemi sembravano essere stati risolti e Silvio le aveva pure trovato un umano che l’adottava, beccò una gastroenterite. In ventiquattro ore se la portò via lasciando il vuoto dei tanti sforzi fatti e un bel conto da pagare ai veterinari.
“Piove sul bagnato”, il commento del Capo.
L’ultima tegola, in ordine di tempo, che colpì il cranio di Silvio fu una notizia bomba: il nano maledetto, l’infame frate sterminatore di felini, tornava al convento di Montelepre.
Evito di riportare i suoi commenti in merito.
Comunque non tornava a riprendere il suo posto di predicatore (della domenica) ma come sorvegliato speciale: era una punizione, una specie di confino.
“Cazzo! Ma lo mandassero in Groenlandia a spaccare ghiaccio!” disse Silvio quando le solite vie traverse gli raccontarono quello che era successo.
Cos’era successo?
Semplice: il nano maledetto aveva diversi vizietti, come tanti altri predicatori (della domenica). Aveva insidiato sessualmente delle fedeli nel convento dove era stato trasferito. Fatto di poco conto agli occhi di tutti, frati e preti sono uomini come gli altri… ci può anche scappare. Sembra che le alte sfere ecclesiastiche avessero chiuso un occhio, anche tutti e due. L’altro vizio del frataccio glieli aveva fatti riaprire.
Lo schifoso era appassionato di videopoker e aveva dilapidato le casse del convento cercando fortuna con le macchinette. Non solo! Si era pure fatto prestare soldi, tanti, dalle persone sbagliate e non era in grado di restituirli. Ora gli stavano dando la caccia. La sua auto l’avevano già trovata e bruciata, come avvertimento. La prossima volta, se non avesse rimesso il debito (con i salati interessi) avrebbero bruciato il suo saio e quello che ci stava dentro (un sacco di merda).
Scusate, m’è scappata.
Il grande capo dell’associazione a delinquere (termine con cui Silvio identifica l’ordine dei religiosi), meglio noto come padre vicario, aveva deciso di rinchiuderlo a Montelepre per punirlo e, contemporaneamente, proteggerlo dagli usurai.
“Capirai! Vagli a toccare i soldi, a quelli!” l’esternazione del Capo.
Non ho capito se con “quelli” si riferiva agli usurai o alla chiesa, forse a tutti e due.
Il nano tornò ed era grande la preoccupazione che ci scatenasse un’altra guerra contro. Già avevamo i nostri problemi con i due cani. Il Capo aveva già progettato di stampare un centinaio di volantini con la foto dell’infame e l’indirizzo della sua nuova residenza e distribuirli in tutte le sale giochi della città.
“Così se lo vengono a prendere e ce lo leviamo per sempre di torno.”
Poi aveva pensato, giustamente, che, come lui era a conoscenza del trasferimento del viscido vizioso, anche i suoi amici usurai ne fossero informati e soprassedette al volantinaggio.
Invece il malefico frate non ci degnò di uno sguardo. Gli avevano concesso due ore d’aria al giorno: la mattina, dalle sei alle otto. Il resto della giornata lo doveva passare dentro al convento a pregare per i peccati commessi e a lavorare per restituire i soldi.
Ogni mattina alle sei, ancora con il buio, usciva di soppiatto dal convento e andava a fare una passeggiata nel bosco, quello dalla parte opposta della Colonia Nuova. Lo controllavamo attentamente, ma finora non aveva fatto nulla per infastidirci.
Di fronte a tutto ciò avevo una sola preoccupazione: che Silvio mollasse e si lasciasse andare, mandando a puttane tutto quanto aveva realizzato.
“Tazza!” sento chiamarmi. “Allora, ci racconti di quella domenica alla Colonia Nuova?” E’ Pipu, uno dei nuovi cuccioli di Casa Carpaneta.

                       CORNIOLA - Il Fannullone della Colonia

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