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UN ALTRO PROFUGO
UN ALTRO PROFUGO
Finiti di sistemare i due profughi rimanenti e trovato loro
pure un’occupazione utile per la comunità: ERNESTO al bar e CATERINA in
lavanderia, mi trovo alle prese con un nuovo arrivo, ancora un altro profugo.
Stavolta è una gattara amica del Capo che ce lo porta
spiegando la situazione.
E’ un gatto maschio, adulto, ex randagio ancora intero. Ha
fallito due adozioni perché non è adatto alla vita casalinga, dice.
Non ho mai capito questa mania di dover per forza trovare
casa ai gatti che oramai vivono da anni in strada e quello è il loro ambiente
naturale.
Un gattone nero, con un pelo lanuginoso che fa sembrare il
suo colore opaco.
E’ spaventato da
morire: vorrei vedere! Tre traslochi in poco tempo e sempre in posti che non
conosce.
Mi accorgo che ha un occhio solo, cioè, ce li ha tutti e
due, ma uno è chiuso da una palpebra nera e cammina male, quasi gli facessero
male i piedi.
“Forse non è abituato a camminare sulla terra e l’erba!”
commenta ALALA’.
E’ timidissimo e durante i suoi primi passi di libertà si
allontana sempre più verso la rete che divide la Colonia dal campo del
convento.
La supera e scompare.
Ma il Capo ha fatto in tempo ad accarezzarlo e battezzarlo:
MOSHE’.
“Speriamo rimanga” dice alla gattara, spiegandogli che la
maggior parte dei gatti adulti che abbandonano in Colonia stanno solo pochi
giorni e poi scompaiono, forse per tornare al loro vecchio posto, casa o strada
che sia.
MOSHE’ rimane. Si affaccia dalla rete il giorno successivo
quando sente il Capo che ci chiama per il pasto.
Si fa notare e il Capo gli appoggia un piatto di umido e una
ciotola di crocchette vicino alla recinzione. Lui mangia, sempre controllando
cosa succeda nelle vicinanze, poi riattraversa la rete e scompare di nuovo.
Il rito dura per alcuni giorni, fino a quando MOSHE’ decide
di fidarsi del Capo e un pomeriggio si fa trovare pronto al pasto sopra a un
muretto.
Si lascia anche accarezzare e il Capo comincia a rinominarlo
MOCI (diminutivo di Nocciolone, come lo aveva chiamato qualche volta). Dopo una
mesata il Capo decide che è giunta l’ora di sterilizzarlo, ma non all’ASL.
Lo porta dai veterinari di fiducia anche per togliere quella
inutile e dannosa palpebra e vedere cosa ha sotto i piedi che gli impedisce di
camminare correttamente.
MOSHE’ torna dopo tre giorni senza palle, con l’occhio
aperto che può osservare l’altra metà del mondo prima negata e felicissimo. Il
Capo è molto meno felice.
Il problema dei piedi, per cui MOSHE’ sta prendendo degli
antibiotici, è uno dei sintomi della FIV. Infatti MOSHE’ è risultato positivo
al test dell’ AIDS felino.
Non c’è cura, mi spiega un pomeriggio il Capo, ma si può
cercare di rimandare lo sviluppo della malattia con poche e semplici medicine.
Purtroppo non bastano.
Dopo qualche mese MOSHE’ comincia ad avere problemi ai
denti. La classica stomatite che nulla di buono lascia presagire. MOSHE’ viene
curato e il Capo usa mille attenzioni per lui, tanto che comincio ad
innervosirmi per come lo coccola.
E’ ALALA’ a metterci la pezza: “Sii paziente TAZZA” dice “il Capo lo tratta in guanti bianchi perché sa che ha più poco da vivere. Poi,
ti assicuro, prendere quelle pappette che gli propina, con lo Stomorgil
sbriciolato dentro, è veramente una tortura. Il sapore dello Stomorgil è quasi
peggiore di quello del cortisone!”
MOSHE’ riesce a resistere poco più di un anno, il 19 agosto
2008, oramai simile ad un rottame di gatto il Capo lo accompagna al suo ultimo
viaggio.
Lui ci va sereno, consapevole di andarsi a togliere un
grosso peso; entra nella gabbietta da solo.
Ho sempre ammirato quel gesto di coraggio che mi ha fatto
rivalutare un collega che poteva diventare un amico e che invece ho sempre
considerato un rivale. Mi spiace ancora per il mio stupido comportamento e ne
dovrei chiedere scusa anche al Capo che, sicuramente, quando leggerà questa
puntata della STORIA DELLA COLONIA verserà qualche lacrima.
MOSHE' prima dell'operazione - Marzo 2007 |
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