domenica 4 maggio 2014

STORIA DELLA COLONIA




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UN ALTRO PROFUGO





Finiti di sistemare i due profughi rimanenti e trovato loro pure un’occupazione utile per la comunità: ERNESTO al bar e CATERINA in lavanderia, mi trovo alle prese con un nuovo arrivo, ancora un altro profugo.
Stavolta è una gattara amica del Capo che ce lo porta spiegando la situazione.
E’ un gatto maschio, adulto, ex randagio ancora intero. Ha fallito due adozioni perché non è adatto alla vita casalinga, dice.
Non ho mai capito questa mania di dover per forza trovare casa ai gatti che oramai vivono da anni in strada e quello è il loro ambiente naturale.
Un gattone nero, con un pelo lanuginoso che fa sembrare il suo colore opaco.
E’ spaventato da morire: vorrei vedere! Tre traslochi in poco tempo e sempre in posti che non conosce.
Mi accorgo che ha un occhio solo, cioè, ce li ha tutti e due, ma uno è chiuso da una palpebra nera e cammina male, quasi gli facessero male i piedi.
“Forse non è abituato a camminare sulla terra e l’erba!” commenta ALALA’.
E’ timidissimo e durante i suoi primi passi di libertà si allontana sempre più verso la rete che divide la Colonia dal campo del convento.
La supera e scompare.
Ma il Capo ha fatto in tempo ad accarezzarlo e battezzarlo: MOSHE’.
“Speriamo rimanga” dice alla gattara, spiegandogli che la maggior parte dei gatti adulti che abbandonano in Colonia stanno solo pochi giorni e poi scompaiono, forse per tornare al loro vecchio posto, casa o strada che sia.
MOSHE’ rimane. Si affaccia dalla rete il giorno successivo quando sente il Capo che ci chiama per il pasto.
Si fa notare e il Capo gli appoggia un piatto di umido e una ciotola di crocchette vicino alla recinzione. Lui mangia, sempre controllando cosa succeda nelle vicinanze, poi riattraversa la rete e scompare di nuovo.
Il rito dura per alcuni giorni, fino a quando MOSHE’ decide di fidarsi del Capo e un pomeriggio si fa trovare pronto al pasto sopra a un muretto.
Si lascia anche accarezzare e il Capo comincia a rinominarlo MOCI (diminutivo di Nocciolone, come lo aveva chiamato qualche volta). Dopo una mesata il Capo decide che è giunta l’ora di sterilizzarlo, ma non all’ASL.
Lo porta dai veterinari di fiducia anche per togliere quella inutile e dannosa palpebra e vedere cosa ha sotto i piedi che gli impedisce di camminare correttamente.
MOSHE’ torna dopo tre giorni senza palle, con l’occhio aperto che può osservare l’altra metà del mondo prima negata e felicissimo. Il Capo è molto meno felice.
Il problema dei piedi, per cui MOSHE’ sta prendendo degli antibiotici, è uno dei sintomi della FIV. Infatti MOSHE’ è risultato positivo al test dell’ AIDS felino.
Non c’è cura, mi spiega un pomeriggio il Capo, ma si può cercare di rimandare lo sviluppo della malattia con poche e semplici medicine. Purtroppo non bastano.
Dopo qualche mese MOSHE’ comincia ad avere problemi ai denti. La classica stomatite che nulla di buono lascia presagire. MOSHE’ viene curato e il Capo usa mille attenzioni per lui, tanto che comincio ad innervosirmi per come lo coccola.
E’ ALALA’ a metterci la pezza: “Sii paziente TAZZA” dice “il Capo lo tratta in guanti bianchi perché sa che ha più poco da vivere. Poi, ti assicuro, prendere quelle pappette che gli propina, con lo Stomorgil sbriciolato dentro, è veramente una tortura. Il sapore dello Stomorgil è quasi peggiore di quello del cortisone!”
MOSHE’ riesce a resistere poco più di un anno, il 19 agosto 2008, oramai simile ad un rottame di gatto il Capo lo accompagna al suo ultimo viaggio.
Lui ci va sereno, consapevole di andarsi a togliere un grosso peso; entra nella gabbietta da solo.
Ho sempre ammirato quel gesto di coraggio che mi ha fatto rivalutare un collega che poteva diventare un amico e che invece ho sempre considerato un rivale. Mi spiace ancora per il mio stupido comportamento e ne dovrei chiedere scusa anche al Capo che, sicuramente, quando leggerà questa puntata della STORIA DELLA COLONIA verserà qualche lacrima. 

MOSHE' prima dell'operazione - Marzo 2007

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