LE MALEDETTE
di Catus Silvestris
9a puntata
Ringraziamo l’ignoto ammiratore (o ammiratrice) che ha
voluto lenire le nostre sofferenze domenicali facendoci consegnare dal Gingillo
Bar dei vassoi di tartine e sandwich riempiti con ogni ben di Dio. Ringraziamo
pure per le due magnum di champagne millesimato pervenuteci insieme al frugale
spuntino.
Se il TG delle 13 passerà la notizia di un nuovo esperimento
nucleare della Corea del Nord non credeteci: è stato solo il ruttino di
gradimento di OSCAR.
9
Tre lunghi mesi passati a ripristinare la strada principale delle
Corone, è un lavoro noioso: spesso devo operare con il decespugliatore, che
detesto. L’unico contento è Picche che ha una nuova zona da esplorare e
numerosi animali selvatici da far scappare e rincorrere. E’il suo istinto
primordiale di cacciatore, non aiutato da adeguata istruzione. Picche è un
bracco incrociato con non so cosa. Lo trovai quattro anni fa in mezzo ad una
macchia, lattante, con un fratellino (o sorellina, non saprei). La madre era lì
vicino, morta, con una zampa posteriore tranciata. Forse si era imbattuta in
una tagliola per volpi mentre cercava cibo e si era liberata recidendosi la
zampa catturata. Era tornata dai suoi piccoli per allattarli, ma non ce l’aveva
fatta a sopravvivere all’emorragia. Li presi che strillavano come aquile e li
portai dal veterinario, a Paese. Il fratellino (o sorellina) non ce la fece.
Picche diventò il cane di casa e l’unico compagno di lavoro. Non era il primo
cane avuto in casa. Babbo, da buon cacciatore, ne aveva diversi, ma il rapporto
che avevo con loro era quasi inesistente, erano quasi sempre chiusi nel recinto
ed uscivano solo per andare a cacciare. Con Picche è differente. Non sa neppure
cosa sia un recinto. Dorme in casa, quando fa freddo, oppure preferisce il
cassone del pickup. Ogni anno lo porto dal veterinario per la vaccinazione, ora
a Città, dal veterinario per cani e gatti, non da quello per vacche, pecore e
maiali. Posso asserire che Picche è il mio migliore amico e sicuramente
l’essere vivente con cui parlo più a lungo e volentieri. Solo le sue risposte
sono monotone: ‘Uof!’
Per il resto la vita scorre piatta e sempre uguale. La settimana si
lavora in macchia o al capannone, il venerdì sera si va al Covo e, una volta a
settimana, si tromba con la Bellona. La storia con lei, se la posso definire
storia, ma non saprei quale altro termine usare, prosegue sui soliti binari. Si
cena, più o meno discretamente, si scopa, sempre selvaggiamente, e ci si
saluta. Ogni due fine settimana se ne va a Roma, da questi misteriosi amici.
Non ha neppure accennato ad un invito ma non le ho fatto intendere che mi
piacerebbe. Visitare Roma, che non ho mai visto, mi piacerebbe assai. Forse un
giorno ci andrò con Picche.
Una mattina che mi sto recando alle Corone ho la sorpresa proprio
davanti al cancello dell’ingresso principale: la Range Rover di Dejo e un
pulmino UAZ fuoristrada mi impediscono l’ingresso.
Scendo dall’Unimog, già sapendo che tira aria di guai; a bordo della
Range, oltre a Dejo, c’è pure il patriarca Argan e il fratello Stevan, con
un’altra persona che non conosco. Nello UAZ ci sta una delle loro squadre di
lavoro: tutti macedoni o montenegrini, in gran parte clandestini.
- Ciao Fosco! – fa Dejo – Ti presento il nostro avvocato, il dottor
Franceschini.
- E’ venuto a darmi una mano?
Il dottor Franceschini scende dal fuoristrada e mi porge la mano che,
naturalmente, ignoro.
- Ho appena fatto opposizione al Tribunale per la concessione della
Corona alla sua persona – dice, giungendo subito al dunque – Siamo qui per un
sopralluogo e verificare che lei non prelevi legna dalla zona in questione.
Lo guardo perplesso, come si può osservare un ubriaco che tenta di
mettere in fila una frase.
- Significa – chiarisce – che finché il tribunale non avrà esaminato la
regolarità della concessione lei è inibito al taglio e all’asporto di qualsiasi
tipo di vegetazione della Corona. Questa è la copia dell’atto presentato in
tribunale – porgendomi un mazzo di fogli spillati.
- Benissimo! – commento – Appena il tribunale mi dirà che devo andarmene
lo farò. Per il momento, scusate, ho da lavorare. Vi inibisco dal parcheggiare
le vostre auto davanti all’ingresso di una zona militare.
- Noi entriamo con lei – aggiunge l’avvocato.
- Se lei prova solo a superare con un piede il confine della zona
militare glielo taglio con la motosega.
L’avvocato sbianca e cerca una qualsiasi istruzione da parte degli
occupanti della Range.
- Fosco – mormora il partiarca – non minacciare i nostri amici.
- Allora levatevi dai coglioni. Se avevate qualcosa di concreto da dirmi
mi convocavate nello studio dell’avvocato.
- Ehi, piccino – interviene Stevan scendendo dall’auto – cerca di
moderare i toni. Levati dai coglioni lo dici a tuo padre a tua madre!
- E a quella puttana di tua sorella… - mi esce spontaneo.
E’ un attimo: Stevan carica il destro ma è prevedibile, lo schivo,
ritenta col sinistro ma stavolta è Picche che viene a dar manforte cercando di
azzannarlo alla coscia.
Spontaneamente Stevan gli molla un calcione che lo colpisce in pieno.
Non ci vedo più. Afferro una stanga di legno che tengo tra il braccio meccanico
e il cassone dell’Unimog e gli rifilo una bastonata sulle costole. Stevan
crolla a terra mentre riacchiappo Picche per il collare.
- Fermo sul cassone! – gli ordino.
Picche sale diligentemente sul cassone, ma il problema è che dallo UAZ
scendono tre dei loro lavoranti e mi vengono addosso.
Con l’avvocato, Dejo e il patriarca che stanno a guardare subisco un
pestaggio da manuale. Picche disobbedisce agli ordini e si butta nella mischia
addentando tutti i polpacci clandestini che trova, rimedia un altro calcio.
Dallo UAZ esce un altro troglodita armato di ronchetto che cerca di avvicinarsi
a Picche. Riesco solo a gridare – Picche! Scappa via! – Picche comprende il pericolo e fa la finta di
ritirarsi, ma è solo per prendere lo slancio e azzannare l’avambraccio armato
del miserabile. Lo sento urlare dal dolore (il miserabile) e quando vedo Stevan
prendere una pistola dall’auto e cercare di puntarla su Picche ripeto gli
ripeto l’ordine: - Via, Picche! Via! -
Picche obbedisce, a malincuore, ma obbedisce e scappa via lungo la
strada.
L’avvocato va da Stevan e gli ferma la mano sussurrandogli qualcosa
nell’orecchio.
Stevan ripone in tasca la pistola mentre io stramazzo a terra.
L’avvocato lo prende sottobraccio e lo conduce alla Range.
Fa in tempo a gridare – Sorbo! Sei un uomo morto!
I tre lavoranti cessano di riempirmi di calci e tornano dentro il loro
pulmino. Mi fisso i loro volti nella mente.
Rimango un buon quarto d’ora seduto a terra, sanguinante, dolorante e in
debito di ossigeno. Da dietro un albero vedo sbucare il muso di Picche.
- Vieni, Picche, bravo!
Picche arriva e comincia a leccarmi dove scorre ancora il sangue.
- Fermo, che m’infetti!
Arrivo all’Unimog e apro la tanica di acqua di scorta. Mi lavo il viso e
tutte le ferite. Appena mi guardo allo specchietto destro mi scuote un brivido.
Mi hanno massacrato… penso tra me.
Rimango ancora lì, fermo e dolorante, per una buona mezz’ora. Poi apro
il thermos e mi bevo una tripla dose di caffè. Provo ad accendere una sigaretta
ma i colpi di tosse me la fanno gettare via subito.
Mò, chi cazzo glielo dice a Carla? E’ il primo pensiero che mi viene in
mente.
Ripensandoci, e guardandomi allo specchietto, capisco poi che il
problema non sussiste: sono una maschera di lividi, tagli e ferite.
Meglio fare un salto in farmacia.
Sembrasse facile!
Già salire sull’Unimog si rivela un’impresa ardua, mettere in moto e
fare manovra è praticamente impossibile.
Ripenso alle parole di zia lo scorso Natale – Ti vorrei regalare tanto
uno di quei telefoni tascabili, almeno se hai qualche problema puoi avvertire!
- Lascia perdere, zia – le risposi – Costano un botto e dove vado io non
servono a nulla, non c’è il segnale nei boschi e sui monti.
Chissà se alle Corone il segnale ci sta… Già, ma poi, chi cazzo
chiamerei? Zia? Così le viene un coccolone. Il bar di Paese? Mi prenderebbero
per il culo per tutta la vita.
Stringo i denti e riesco ad ingranare la retromarcia. Arretro e butto su
la prima. Con un filo di gas; anche i muscoli delle gambe mi fanno male, torno
sulla strada principale e dirigo verso la farmacia lungo la statale. Riesco ad arrivarci
per miracolo, un occhio è completamente chiuso e l’altro lo sento gonfio e mi
distorce le immagini. Appena entro dentro la farmacia una cliente si scansa con
un balzo. Il farmacista mi vede e mi accompagna subito nel retro.
- Fosco, che cazzo ti è successo?
- S… sono caduto
Non replica ma intuisco che è poco convinto della mia stringata
spiegazione.
- Ora ti medico, ma sarebbe meglio che facessi –meglio ti facessi
portare- all’ospedale a Città. Forse hai anche qualcosa di rotto e non
escluderei un’emorragia interna.
- Ddammi una rrappezzata – biascico facendo colare della saliva mista a
sangue.
- Devo chiamare i Carabinieri?
Faccio segno di no.
- Ti ci porto io all’ospedale.
Ancora no.
- A casa, comunque, non ci puoi tornare da solo.
- Cchiama Antonio alla sstazione dei forestali.
Mi imbottisce di iniezioni e comincia a lavarmi e disinfettarmi le
ferite. Mette pure alcuni punti vicino all’occhio destro.
- Al più presto devi fare una visita oculistica – consiglia –Rischi di
rimetterci l’occhio.
Ho la testa che scoppia e il senso di spossatezza ha preso il
sopravvento. Rischio di cadere dalla sedia un paio di volte.
Gianni, il farmacista, mi adagia su una poltrona e si allontana per
telefonare.
Quando mi risveglio sono circondato da Antonio, Gino e Carla.
- Proprio una brutta caduta! – fa lei – In quanti erano?
Tre faccio segno con le dita dell’unica mano che riesco ad aprire.
- Chi penso io?
Annuisco con il capo e riparte il mal di testa.
- Ora ti porto all’ospedale e lì facciamo denuncia al posto di Polizia.
Stavolta faccio segno di no.
- Testone.
Segue un consulto tra i tre amici e il farmacista che sento fare la
classica battuta – Al massimo muore.
Vengo condotto nella Campagnola dei forestali, che è più scomoda
dell’Unimog e riaccompagnato a casa. Gino guida l’Unimog insieme a Picche.
Per fortuna zia non c’è, sapevo che doveva andare a Città per delle
commissioni. Mi getto sul letto e chiudo
gli occhi. Poi non ricordo altro.
Al risveglio sono rintronato come una campana. Sento zia in cucina parlare
con qualcuno: è Antonio, è rimasto a vegliare il sonno del malconcio.
Riesco ad alzarmi dal letto e trascinarmi in cucina.
- Ecco l’eroe solitario! – mi accoglie Antonio.
- Figlio mio… ma come t’hanno conciato! – zia.
- Devo ricordarmi di non dar bastonate a qualcuno quando è in compagnia
di sei boscaioli – osservo – Fatemi un caffè, per favore.
- Poi le andiamo a fare quattro lastre all’ospedale? – domanda Antonio.
- Scordatelo. Dammi tre giorni di riposo e torno più nuovo di prima.
- Però, forse dal dentista…
Esploro le arcate dentarie con la lingua: è saltato un premolare
superiore e una vecchia otturazione.
- Vada per il dentista. Allora? ‘Sto caffè?
- Eccolo, è tornato subito maleducato ed arrogante – osserva zia, che
credevo mi attaccasse la solita tiritera di prendere con me gente a lavorare.
Invece è stranamente rassegnata. Poi, quando Antonio mi consiglia di passare in
ufficio da Carla, come prima cosa appena uscirò di casa, capisco il perché.
Zia non aspettava altro. Fa sedere Antonio col caffè davanti, servendolo
prima di me, e gli chiede notizie sulla fanciulla dallo stipendio sicuro.
Riesco a bere il caffè, fumare una sigaretta, andare al bagno a pisciare
e, senza salutare, tornarmene a letto.
Faccio ben tre giorni di convalescenza casalinga; ho qualche linea di
febbre e, tanto, fuori piove quella pioggerellina fina e continua che ti
inzuppa senza accorgertene. Ma mi annoio a morte; non riesco a leggere con
l’occhio semichiuso e i programmi televisivi mi sprofondano in un’assonnata
angoscia.
Il quarto giorno la resurrezione salutata da una serie di ‘Uof!’ di
Picche che riceve i complimenti per il comportamento e numerosi bocconcini
premio.
Vado a ripulire il posto guida dell’Unimog dal mio sangue e controllo
l’attrezzatura.
Mi viene un mancamento: manca la nuova motosega, una preziosa e
costosissima Stihl, sogno di tutti i taglialegna. Comincio a tirare giù
bestemmie mentre telefono ad Antonio.
- Anto’ mica l’avrai presa tu la mia nuova Stihl?
- No. Era sull’Unimog?
- Certo! Dietro ai sedili, insieme all’ Alpina e alla Husqy!
- Non ci ho fatto caso.
- Stai a fare il solito scherzo stupido?
- Ti giuro che non l’ho vista né toccata.
- Ok, ti credo. Ora cerco meglio.
Cerco meglio un cazzo! E’ una motosega da un metro, mica un paio di
occhiali che si possono nascondere! Me l’hanno inculata quei primitivi…
- Ricordati di passare in ufficio da Carla! – chiude la conversazione
Antonio.
- Ok. Nel pomeriggio.
POLVERE ha gradito lo spuntino |
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