LE MALEDETTE
di Catus Silvestris
19a e ultima puntata
- Ancora nulla? – domando.
- Nulla di nulla, BAIOCCO! – chiarisce TARANTOLA di nuovo in veste di
Segretaria della Colonia – Mica l’Editore sarà morto?
- La posta è già arrivata? – incalzo.
- La posta non viene più – la secca risposta – Oramai alle Poste tutto
si fa tranne che sporcarsi le mani con la corrispondenza. Vendono i libri di
cucina della Parodi, i salvadanai in similcoccio, consigliano fondi di
investimento a pensionati ultanovantenni e fanno polizze auto e gestione della
telefonia.
- La cassetta del water la possono riparare?
- Non saprei, mi informo!
- Era una battuta scemarella! Le mail?
- Niente neppure là.
- Il piccione viaggiatore?
- Non lo mandano più dopo che ATTILA ha sbranato l’ultimo.
- Capito. Vediamo di organizzare qualcosa per domenica prossima, oggi
terminiamo “Le Maledette”!
- Ci sarebbe il volantino delle offerte pasquali del PAM di San Marco.
- Ok – annuisco – Leggeremo quello, tanto chi vuoi se ne accorga!
19
Usciamo dalla residenza del Professore provati dalla tensione ma le due
amiche sono felici di avere ingrossato a dismisura i loro risparmi.
- Stasera si festeggia! – esclamo facendo capire inequivocabilmente in
che cosa consistano i festeggiamenti.
A cena, da zia, le vedo bere il robusto rosso in quantità industriale.
Certo, con la bruschetta all’olio, le salsicce alla brace e le patate cotte sotto
la cenere ci sta proprio bene. Ma loro esagerano!
Anche zia è un poco preoccupata ma le faccio segno con spallucce di
lasciarle fare e mi complimento per la superba cena.
Le accompagno a Paese che quasi barcollano e chiacchierano in maniera
sguaiata, ridendo per qualsiasi parola impastata esca dalle loro bocche.
Stringono a loro le due preziose scatole. Fatico non poco a portarle in casa,
evitando che cadano dalle scale. Preparo il loro letto e le spoglio,
infilandocele dentro.
Poi me le scopo tutte e due.
EPILOGO
La prima ad andarsene fu Carla, un paio di settimane dopo.
Un pomeriggio, al bar di Paese, ebbe un acceso diverbio con Dejo, a cui
aveva appioppato il solito verbale due giorni prima. La sua squadra di
tagliatori aveva letteralmente devastato un appezzamento di bosco in affitto.
Volarono parole grosse, mi dissero, e Carla offese pesantemente il macedone
che, al suo quarto Campari e gin del dopopranzo, non esitò a tirare fuori il
coltello e bucarla all’addome, tre volte. Morì all’ospedale, sotto i ferri, non
riuscirono a fermare l’emorragia. Per contro, Dejo fu accoppato da Pietro, il
nuovo gestore del locale, un picchiatore neofascista, con una bottigliata di
Pinot de Pinot (piena) che gli sfondò il cranio. Un vecchietto suggerì a Pietro
di farsi un taglietto all’avambraccio con il coltello del macedone. Fu quello
che lo salvò dall’imputazione di omicidio volontario e fu assolto, in primo
grado, per legittima difesa.
Incassai malamente la perdita di Carla; non misi più piede al bar di
Paese e smisi di radermi, facendomi crescere la barba di un paio di centimetri,
molto curata, che ancora porto. Rividi Laura al funerale e ci promettemmo di
risentirci per incontrarci, magari a Roma. Una promessa mai mantenuta.
Il clan dei macedoni perse tutti i suoi appoggi e il capoclan sbaraccò
in fretta le sue ‘aziende’ tornando in patria. Per la legge della compensazione
mi furono affidati gratuitamente tutti i lavori forestali che avevano in corso.
Mi ritrovai proprietario di oltre seicento tonnellate di legna tagliata e
pezzata, stoccata ancora nelle macchie che ripulivano. Vendetti una decina di
carichi completi ai grossisti e col ricavato ampliai il piazzale della mia
azienda. Purtroppo non ritrovai la mia preziosa motosega. Per lungo tempo non
tornai alle Corone.
Il secondo biglietto lo staccò Picche.
Mentre lavoravo in una delle macchie dei macedoni, inseguendo un
animaletto, veniva pizzicato da una vipera. Non feci in tempo a portarlo vivo
dal veterinario.
Incassai ancora peggio questa disgrazia; per diverso tempo non andai per
boschi e macchie e mi rifiutai di adottare altri cuccioli di cane che mi
venivano proposti.
Il suo ‘Uof!’ mi rimbalzava continuamente nella testa.
Poi venne la volta del Professore.
Diventato famoso, e ancora più ricco, con la pubblicazione, a suo nome
(falso), del romanzo ‘ Le colline maledette’ liberamente ispirato al suo
quaderno, al romanzo scritto dal libraio e alle recenti vicende. Il classico
male, chiamato incurabile, ai polmoni (lui che non fumava e mai l’aveva fatto!)
se lo portò via in tre mesi. Io e zia lo accudimmo fino a quando fu ricoverato
in una struttura per malati terminali. L’ultima volta che lo vidi mi disse –
Sai dove stanno; facci quello che vuoi.
Poco dopo la sua morte mi recai in cantina e tirai via le scatole, che
erano aumentate di numero, anche se con banconote usate, e le trasferii nel mio
ripostiglio segreto in casa.
Di Laura seppi dal telegiornale delle 13.
Con la sua nuova Kawasaki si era schiantata contro un furgone in manovra
sul Raccordo Anulare di Roma. Era morta sul colpo.
Riuscii finalmente ad andare a Roma, senza Picche, al suo funerale, ma
la capitale non mi piacque.
Antonio, invece, lo vidi morire sotto i miei occhi.
Un venerdì sera, mentre passeggiavamo sulla statale per la classica
sigaretta del dopo cena, venimmo investiti da un’auto guidata da un giovane
imbottito di alcool e droga. Di lui rimase una larga chiazza di sangue
sull’asfalto, io fui più fortunato, dissero i medici. Le lesioni alle vertebre
D9, D10, D11 e D12 mi hanno immobilizzato, per sempre, su una sedia a rotelle,
malgrado i due interventi subiti. Ora sono un fortunello paraplegico piantato su una carrozzella motorizzata. Ho
venduto l’azienda e quando sento il rumore dello spacca tronchi o della sega a
disco in azione mi scendono le lacrime. Zia mi ha protetto e accudito come
quando ero bambino, fino all’altra sera. La notte, stroncata da un infarto nel
suo letto, mi ha lasciato. Solo, come un avvizzito cipresso solitario in mezzo
ad un campo incolto, che non serve neppure per far ombra a qualche animale e
aspetta speranzoso il fulmine che termini la sua sofferenza.
Io non sono così paziente: il fulmine lo posso creare da solo, con le
mie mani, concedendo per abbandono la vittoria alle Maledette. Avessi dato
retta a zia…
Estraggo dalla gommapiuma la pistola avuta dal Professore.
Inserisco il caricatore e la armo.
Tolgo la sicura e infilo la canna nella bocca sentendo uno sgradevole
sapore metallico di olio minerale.
Chiudo gli occhi e premo il grilletto.
Click.
- Cazzo, si è inceppata!
Alle Maledette piace vincere sul campo.
ATTILA La sterminatrice di piccioni viaggiatori |
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